Questo sito è in fase di dismissione. Consultare il nuovo sito www.arpa.fvg.it

sei in:  home page » informimpresa » Frequently Asked Questions (FAQ) ai sensi del D.P.R. 120/2017 Stampa

Frequently Asked Questions (FAQ) InformImpresa

 

2. Impianti mobili per il trattamento dei rifiuti da scavo o demolizione: il regime autorizzativo (art. 208 del D.Lgs 152/2006) è legato alle quantità lavorate?

No, non è la dimensione del lavoro da fare che determina la necessità di essere autorizzato o meno con l'art.208 ma la tipologia del lavoro che viene effettuata (una o più operazioni di smaltimento o di recupero di rifiuti, anche pericolosi).
Nell’autorizzazione l’autorità competente individua i tipi ed i quantitativi massimi di rifiuti che possono essere trattati.

Gli impianti mobili destinati al trattamento dei rifiuti ex art. 208 comma 15 sono soggetti ad un atto autorizzativo composito che si divide in:
- un momento preventivo dove la Regione autorizza l’impianto ad eseguire l’attività nel complesso ed in ambito nazionale, in via definitiva;
- una fase successiva nella quale l’interessato (proprietario o diverso utilizzatore) deve comunicare, almeno venti giorni prima dell'installazione dell'impianto, alla Regione nel cui territorio opererà, specifiche dettagliate relative alla campagna di attività, allegando l'autorizzazione e l'iscrizione all'Albo nazionale gestori ambientali, nonché l'ulteriore documentazione richiesta. La regione può adottare prescrizioni integrative oppure può vietare l'attività con provvedimento motivato qualora lo svolgimento della stessa nello specifico sito non sia compatibile con la tutela dell'ambiente o della salute pubblica.

Sono esclusi dall’applicazione dell’art. 208 comma 15 le attività degli impianti mobili che effettuano la disidratazione dei fanghi generati da impianti di depurazione e reimmettono l'acqua in testa al processo depurativo presso il quale operano, ed esclusi i casi in cui si provveda alla sola riduzione volumetrica e separazione delle frazioni estranee.

Diverse sentenze definiscono chiaramente che l'attività di frantumazione inerti non rientra tra quelle in deroga in quanto questi impianti operano una vera e propria trasformazione dei materiali e non una mera riduzione volumetrica e semplice separazione di frazioni estranee. 

Riferimenti normativi:

D.Lgs 152/06 e s.m.i. art. 208.

 

4. Sto per acquistare un’area che presenta manufatti provenienti da attività industriali ora dismesse. All’apparenza sembra probabile la presenza di cemento amianto. Quali azioni devo mettere in atto per poter utilizzare l’area installandoci la mia attività imprenditoriale?

Nel caso dei siti industriali dismessi il riferimento normativo è il Decreto Ministeriale 14 maggio 1996 Allegato 1, che definisce le normative e metodologie tecniche per la valutazione del rischio, il controllo e la bonifica di siti industriali dismessi.

Il primo passo è la verifica dell’effettiva presenza di amianto, la sua classificazione e la sua localizzazione da parte del proprietario dell’area o dall’acquirente avvalendosi di un tecnico esperto.

Una volta eseguito un primo inventario della presenza di amianto segue un secondo passo, quello della valutazione del rischio di rilascio di fibre attraverso la verifica dello stato di conservazione del manufatto contenente amianto con le regole tecniche del D.M. 6 settembre 1994. Tale responsabilità è in capo al proprietario dell’immobile (e all’Amministratore Delegato nel caso di un’impresa), il quale dovrà, anche ai sensi del DM 6 set 1994 – punto 4, far effettuare un’ispezione da un tecnico esperto con annessa valutazione del rischio. Nel caso che gli edifici siano adibiti ad attività lavorative tale valutazione va ricompresa nella valutazione dei rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori, prevista dal D. Lgs 81/2008.

Il risultato della valutazione può determinare la necessità di azioni di manutenzione/bonifica che il proprietario/responsabile dell’attività che vi si svolge, dovrà attuare. Le attività di bonifica dell’amianto  possono consistere in: rimozione, incapsulamento e confinamento. La rimozione è indicata in condizioni di grave ed esteso degrado del materiale.

Resta comunque fatto salvo, come indicato dal D.M. 6 Settembre 1994, l’obbligo per il proprietario dell’immobile e/o il responsabile dell’attività che vi si svolge, dal momento in cui viene rilevata la presenza di materiali contenenti amianto nell’ edificio, di attuare  un programma di controllo periodico e manutenzione. Nel caso siano in opera materiali friabili occorre provvedere a redigere un dettagliato rapporto corredato di documentazione fotografica. Copia del rapporto dovrà essere trasmessa alla Azienda sanitaria competente per territorio.

La Regione Friuli Venezia Giulia con DPREG n. 108/2018 ha approvato il Piano Regionale Amianto, il quale definisce la strategia per effettuare la mappatura e l’aggiornamento informatizzato della presenza dei manufatti contenenti amianto sul territorio regionale, le azioni di comunicazione/informazione sull’argomento nonché gli incentivi per la bonifica, con specifici aiuti economici rivolti a privati, ad imprese e ad istituzioni pubbliche.

Per approfondimenti sull’argomento è possibile visitare la sezione Gestione dei rifiuti e tutela dall'inquinamento - AMIANTO del sito della Regione FVG. 

 

10. Quali i trattamenti da effettuare e le autorizzazioni necessarie per le acque derivanti da wellpoint in ambito bonifiche? Ed in ambito edilizio od equivalenti

La tecnica di drenaggio con sistemi wellpoint prevede l’aspirazione dell’acqua di falda superficiale attraverso una serie di unità aspiranti, costituite da strutture simili a pozzi di piccolo diametro dotati di filtro, e collegate tra loro e ad una pompa da vuoto.

In ambito bonifiche le scelte relative all’utilizzo di wellpoint, al tipo di trattamento delle acque emunte o alla loro gestione come rifiuti, ricadono in una valutazione del sito contaminato da approvarsi caso per caso in Conferenza di Servizi. I trattamenti da effettuare sull’acqua emunta dipendono dalla tipologia di contaminazione della falda (metalli, composti organici, etc.) e da quale sia il ricettore finale (la stessa falda oppure altro ricettore). I trattamenti effettuati devono garantire l’effettivo abbattimento degli inquinanti di interesse.

Come indicato dall’art. 243 del D.Lgs 152/2006 (Testo Unico Ambiente), l’acqua emunta, convogliata e trattata, è assimilata ad uno scarico industriale (per i limiti vedi l'allegato 5 della Parte III del D.Lgs 152/06 e s.m.i.) che in quanto tale va autorizzato. L’autorizzazione in campo bonifiche prevista dall’art. 242 comma 7 del D.Lgs 152/2006 (Testo Unico Ambiente) può far rientrare al suo interno le altre autorizzazioni, compresa quella allo scarico, se negli elaborati di progetto sono contenuti tutti gli elementi utili e necessari alla sua valutazione; in alternativa lo scarico deve essere oggetto di altra autorizzazione (ad es. AUA).

In ambito edilizio i sistemi wellpoint rappresentano una delle tecniche più utilizzate per drenare l’acqua di falda nei cantieri, evitando l’allagamento degli scavi: prevede l’abbassamento temporaneo del livello della falda superficiale e la successiva immissione dell’acqua raccolta in un ricettore finale.

In tal caso l’acqua emunta, se non viene a contatto con i materiali e le attrezzature di cantiere ma viene semplicemente rilasciata in corpo ricettore così com’è, mal si adatta alla definizione di scarico così come richiamato dall’art. 74 lettera ff del predetto Testo Unico Ambiente, pertanto non è richiesta sempre, in automatico, un’autorizzazione allo scarico.

Resta tuttavia sempre valido il principio di salvaguardia del corpo ricettore, tanto dal punto di vista chimico fisico (evidenze di contaminazioni causate ad esempio da un sito inquinato a monte del cantiere) che da quello idraulico, così come permangono le prerogative del gestore dell’impianto di depurazione nel caso in cui le acque vengano riversate in fognatura. Il Comune, che autorizza l’opera, potrà valutare eventuali prescrizioni anche in merito al rilascio delle acque di cui sopra oltre che a quanto prescritto dal DM 11/03/1988 (Norme tecniche riguardanti le indagini sui terreni e sulle rocce, la stabilità dei pendii naturali e delle scarpate, i criteri generali e le prescrizioni per la progettazione, l'esecuzione ed il collaudo delle opere di sostegno delle terre e delle opere di fondazione).

In ogni caso, se a causa di contaminazioni del cantiere, inquinamenti pregressi della falda, o altri motivi, l’acqua necessita di un trattamento (anche solo di sedimentazione/filtrazione) prima di essere immessa in un corso ricettore, allora la sua gestione rientra nella normativa degli scarichi. Anche in tal caso, come per le bonifiche, gli eventuali trattamenti da effettuare sull’acqua emunta dipendono dalla tipologia di contaminazione riscontrata (metalli, composti organici, etc.) e da quale sia il ricettore finale (corpo idrico superficiale, fognatura oppure altro ricettore).

Riferimenti normativi:

  • art. 243 del D.Lgs 152/2006 e s.m.i. (Testo Unico Ambiente);
  • allegato 5 della Parte III del d.Lgs 152/06 e s.m.i (Testo Unico Ambiente);
  • art. 74 lettera ff) del D.Lgs 152/2006 e s.m.i. (Testo Unico Ambiente);
  • DM 11/03/1988 (Norme tecniche riguardanti le indagini sui terreni e sulle rocce, la stabilità dei pendii naturali e delle scarpate, i criteri generali e le prescrizioni per la progettazione, l'esecuzione ed il collaudo delle opere di sostegno delle terre e delle opere di fondazione).
 

11. E’ necessaria la valutazione di impatto odorigeno in tutte le autorizzazioni ambientali?

No.

La normativa nazionale (D.Lgs 183/2017 che modifica il D.Lgs 152/2006, Testo Unico Ambiente) stabilisce che per gli impianti ed attività che producono emissioni in atmosfera le Regioni, all’interno delle autorizzazioni, sulla base delle caratteristiche degli impianti, delle attività presenti nello stabilimento e delle caratteristiche della zona interessata, possano imporre per le sostanze odorigene:

-          valori limite di emissione;

-          prescrizioni impiantistiche e gestionali;

-          criteri di localizzazione;

-          specifiche portate massime o concentrazioni massime di emissione odorigena.

La normativa pertanto non individua a priori specifiche tipologie di attività per le quali è necessario produrre una valutazione di impatto odorigeno. Si osserva tuttavia che, anche quando non richiesta dall’autorità competente, la stima dell’impatto odorigeno per un’attività potenziale sorgente di odori è uno strumento di conoscenza utile per lo stesso proponente oltre che per chi autorizza e controlla.

Al fine di fornire elementi utili alla redazione di tale stima quantitativa, ARPA FVG ha pubblicato una linea guida dal titolo “valutazione dell’impatto odorigeno da attività produttive”. Tale linea guida è presente sul sito ARPA FVG al link che comprende le principali Linee guida e Procedure redatta dall'Agenzia sulla tematica Aria.

Riferimenti normativi:

  • Art. 272-bis del D.Lgs 152/2006 (così come modificato dal D.Lgs 183/2017).
 

22. Le acque meteoriche di dilavamento (ad esempio provenienti da piazzali di movimentazione delle merci o da scarti di produzione) sono da considerare scarichi e quindi soggette ad autorizzazione?

La disciplina delle acque meteoriche di dilavamento è completamente demandata alle Regioni.

Il Friuli Venezia Giulia ha recentemente emanato il Piano di tutela delle Acque (delibera di Giunta n. 591/2018). L’art. 4 delle Norme di Attuazione del Piano definisce le acque meteoriche di dilavamento e le suddivide in acque di prima pioggia (considerate contaminate) e di seconda pioggia (considerate non contaminate). L’art.  26 comma 1 delle Norme di cui sopra definisce inoltre quali siano le acque di prima pioggia che andranno convogliate, trattate e scaricate in fognatura o in acque superficiali (oppure al suolo, nei soli casi particolari previsti dalla normativa). Di seguito si riporta il testo:

Art. 26 Acque di prima pioggia

1. Si considerano acque di prima pioggia, ai fini del convogliamento e successivo trattamento, quelle contaminate provenienti dal dilavamento di superfici scolanti di qualsiasi estensione, ove vi sia la presenza di:

a) depositi, non protetti dall’azione di agenti atmosferici, di materie prime, semilavorati, prodotti finiti o rifiuti e che, in occasione di dilavamento meteorico, possono rilasciare sostanze suscettibili di recare danno alle acque superficiali o sotterranee;

b) lavorazioni, comprese le operazioni di carico e scarico, che comportino il dilavamento di sostanze pericolose o di sostanze che creano pregiudizio per il raggiungimento degli obiettivi di qualità dei corpi idrici;

c) ogni altra attività che possa comportare il dilavamento delle sostanze pericolose di cui alle tabelle 3/A e 5 dell’allegato 5 alla parte terza del decreto legislativo 152/2006;

d) ogni altra attività in cui vi sia il dilavamento di sostanze correlate al ciclo produttivo aziendale.”

Risulta evidente come tale Norma di attuazione non esemplifichi tutti i casi possibili e pertanto sia soggetta ad interpretazioni e valutazioni che vanno fatte di caso in caso. Ad oggi si è stabilita una prassi, in passato soggetta a lievi differenze dovute alle diverse sensibilità afferenti ai territori delle ex Province, con la quale identificare i casi in cui le acque meteoriche di dilavamento vanno convogliate, trattate, scaricate e quindi autorizzate dall’Ente Competente (la Regione).

A grandi linee si possono definire contaminate le acque di piazzale quando:

-          vengono svolte attività produttive all’aperto;

-          vi sono stoccaggi di materie prime, manufatti, rifiuti etc.;

-          vi sono aree di rifornimento o scarico di prodotti petroliferi.

Normalmente le aree di transito non vengono considerate come aree potenzialmente inquinate e quindi da autorizzare di default. In alcuni casi tuttavia, ad esempio le piazzole ecologiche, anche nelle aree di transito degli automezzi, le acque dovranno essere raccolte e convogliate ad un trattamento.

Infine si sottolinea che, essendo possibili diverse interpretazioni della Norma di attuazione del Piano di tutela delle Acque, sarebbe utile consultare preventivamente la Regione, quale Ente Competente al rilascio delle autorizzazioni, per una verifica puntuale.

Riferimenti normativi:

  • Piano Regionale di Tutela delle Acque del Friuli Venezia Giulia – Delibera di Giunta Regionale n. 591 del 15.03.2018.
 

35. Per un serbatoio carburanti interrato che non rientra nella casistica degli impianti di distribuzione carburanti, esistono delle norme a cui riferirsi per la periodicità e le modalità delle prove di tenuta?

No.
Nella gestione tecnica dei serbatoi interrati rimane disponibile in Norma il solo riferimento del DM 29.11.2002 “Requisiti tecnici per la costruzione, l'installazione e l'esercizio dei serbatoi interrati destinati allo stoccaggio di carburanti liquidi per autotrazione, presso gli impianti di distribuzione”. Trattandosi in questo caso di un’attività che non ricade in tale fattispecie, non vi sono degli obblighi normativi generali, tuttavia va tenuto sempre presente che possono esserci almeno 2 casi in cui diventa obbligatorio effettuare prove di tenuta di un serbatoio interrato:

 1)      Se è richiesto da un atto/provvedimento autorizzativo (in tal caso potrebbero essere specificati nell’atto stesso anche tempi e modalità delle prove);

2)      Se si sospetta una perdita all’interno del serbatoio (ad esempio in seguito ad un anomalo calo di livello), specialmente in assenza di doppia parete, generalmente più cautelativa.

Per quanto riguarda le modalità di effettuazione delle prove di tenuta, pur in assenza di normativa vigente, possono richiamarsi, in via puramente di riferimento tecnico, i disposti del decaduto Decreto del Ministero dell’Ambiente n° 246 del 24.05.1999 (Regolamento recante norme concernenti i requisiti tecnici per la costruzione, l'istallazione e l'esercizio dei serbatoi interrati).

In particolare, in riferimento alle prove di tenuta, debbono essere adottati metodi in grado di rilevare una perdita nei serbatoi uguale o minore di quattrocento cm3 per ora (con una probabilità di rilevamento pari o maggiore al 95%). Si indica come preferibile la metodica di rilevamento VACUUM TEST. Le prove devono essere effettuate da personale qualificato. I risultati delle prove devono comparire in apposito certificato ed in caso di esito sfavorevole della prova, deve essere data notifica immediata alle autorità competenti (Comune, Arpa, Regione FVG - Direzione centrale difesa dell'ambiente, energia e sviluppo sostenibile). 

Riferimenti normativi:

  • DM 29.11.2002 (Requisiti tecnici per la costruzione, l'installazione e l'esercizio dei serbatoi interrati destinati allo stoccaggio di carburanti liquidi per autotrazione, presso gli impianti di distribuzione).
  • DM 246/1999 (Regolamento recante norme concernenti i requisiti tecnici per la costruzione, l'istallazione e l'esercizio dei serbatoi interrati) annullato con Sentenza n° 266 del 19/07/2001 della Corte Costituzionale.
 

36. E' possibile riutilizzare i materiali edili derivati dalla demolizione di un edificio?

Sì, a certe condizioni.

In linea generale è fortemente raccomandato un attento inventario, da effettuarsi in fase di progettazione della demolizione, degli elementi che saranno destinati a riutilizzo, seguito da adeguata separazione/smontaggio, identificazione e corretto stoccaggio (distinto dai rifiuti) dei materiali da riutilizzare.

Non esiste infatti una specifica normativa nazionale che regolamenti le attività finalizzate al riutilizzo di materiale proveniente da demolizione, tuttavia, riutilizzare materiali, anche quelli edili derivati dalle attività di demolizione, è altamente raccomandato dai principi cardine dell’economia circolare, che indicano nel riuso la miglior pratica per prevenire la produzione di rifiuti.

Il D.Lgs 152/2006 (TUA) all’art. 183 comma 1 lettera r) definisce:
riutilizzo: qualsiasi operazione attraverso la quale prodotti o componenti che non sono rifiuti sono reimpiegati per la stessa finalità per la quale erano stati concepiti;”.

Pertanto, se si desidera riutilizzare un materiale tal quale proveniente da un’opera edile da demolire, è opportuno raccogliere evidenze che consentano di attribuire al suddetto materiale la qualifica di bene e non di rifiuto, documentando che non ci si vuole “disfare” di esso. 

Uno strumento valido in tal senso è rappresentato dalle procedure di demolizione selettiva, che prevedono una progettazione intelligente e documentata a monte delle operazioni di demolizione. All’interno di tale progettazione vengono individuati i materiali che non costituiscono scarti o rifiuti in quanto viene espressa la volontà di reimpiegarli.

La Linea guida dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA) sulla gestione dei rifiuti provenienti da attività di costruzione & demolizione (vedi riferimento a fondo pagina) dedica una breve sezione al tema del riutilizzo. In particolare afferma che: “…Tale pratica viene applicata da tempo in modo particolare per la valorizzazione di quegli elementi che possono avere un pregio estetico/storico… I componenti selezionati, se il produttore non ha intenzione di disfarsene, superata la verifica atta a valutare il loro possibile reimpiego, soprattutto se da utilizzarsi come elementi strutturali o “portanti”, e la loro non “contaminazione” (anche accidentale) con sostanze pericolose non rientrano nella definizione di rifiuto (art. 183, comma 1 lett. a) D.Lgs.152/2006), e pertanto vanno considerati come un qualunque altro materiale/componente da costruzione e come tale deve essere gestito….”.

Riferimenti normativi e tecnici:



ultimo aggiornamento: martedì 14 dicembre 2021